Ser Veggente
Quando calano le tenebre in questa biblioteca non c’è mai nessuno, solo lei. Sono trascorsi ormai settantaquattro mila giorni da quando fui posato sopra il mio scaffale e, di tutti i viandanti passati in questa sala, fidatevi, voi siete quelli che meno alzano il mento. Se lo aveste fatto almeno un poco, così, pure soltanto per capriccio, allora avreste visto che il quadro del borbone nel monumentale ha un occhio vivo e nero pece, un occhio umido com’è umida la notte. Un occhio che si muove, che ti scruta e, chi lo sa perché, ti terrorizza. Credete a me, scaffale e, seconda mensola, tredicesimo da sinistra, credetemi, dicevo, quello è un occhio senza fine. Quello è un occhio di diabolica civetta. Nessuno sa quand’è che la civetta del salone decise di nascondersi là sopra. Tutti assorti nello studio della fede, ostacolati dal cappuccione che tenevan sempre sulla testa e a quella luce tremula delle candele che bruciavano ogni sera davanti ai loro nasi, i gesuiti scordarono le scienze naturali e la scambiarono per un’allodola di dio. Gli illuministi, più avvezzi all’ornitologia, riconobbero al pennuto la sua schiatta e la promossero a civetta consacrata alla dea Pallade. Gli ottocenteschi in redingote, con in testa solo cilindri, tube e scienze dell’occulto, pensarono subito a uno spettro e gli cantarono mille odi tenebrose al claire de lune. Poi venne quel bibliotecario d’inizio novecento, un uomo rozzo e analfabeta, risoluto, che sperando di spegnerla, la fiammella di leggenda sul fantasma, le piazzò davanti quel pessimo ritratto del sovrano. La civetta non si perse d’animo, con il becco aprì uno squarcio nella tela proprio sotto il regale sopracciglio, e ci piazzò dentro il globo acquoso con il quale, ancora oggi, non smette di fissarci a uno a uno.
Che cosa voglia, noi non lo sappiamo. Mille volte, prima d’essere ridotti in schiavitù, ci radunammo sopra il pavimento e mille volte spargemmo linfa, carta e inchiostro dappertutto. Furono anni di terrore. La civetta ci guardava sempre, ci metteva i brividi e notte dopo notte noi non facevamo altro che danzare la danza della morte. Il bibliotecario screanzato non si lasciò sfuggire l’occasione e ci rinchiuse. Complici! Non lo vedete che alcuni di noi stanno ingabbiati? Niente più prestiti, non un lettore. Imprigionare i libri, quale indecenza; condannati a vita eterna, questo siamo. E sotto l’occhio tremendo di uno spettro!
Un uomo, un giorno, venne a sostituire l’aguzzino finalmente pensionato. Entrò di notte, ci toccò a uno a uno e poi d’un tratto, orrore!, si rivolse proprio alla civetta in volo. Disse d’essere il bibliotecario e che noi stessi lo avevamo fatto cieco. La civetta fa ciò che deve fare, non temiate. Uno scaffale al giorno prese a liberarci tutti quanti. Comincerò dall’alto, disse, perché le scale è meglio usarle presto, se si è ciechi. Un libro al piano terra, senza il foderino protettivo che applicate ai nostri giovani per togliergli qualsiasi dignità, teneva dentro le storie medievali e parlava sempre come un cavaliere. Ci disse di chiamare il cieco Ser Veggente, e lo facemmo.
Così come era venuto, Ser Veggente scomparì. Non s’è più visto, passato, evaporato. L’opera ch’egli aveva incominciato nessuno l’ha compiuta. La civetta è là, e mi sembra che là sia sempre stata. Alzate il mento, se voi osate, alzate gli occhi come fece il Ser Veggente, e lo vedrete. Un occhio vivo e nero pece, l’occhio di una civetta che forse esiste, forse è spettro, o forse l’ho inventata.