Le parole nascoste
Armeggiare con il chiavistello del portone mentre le mani erano passerini intirizzite dal freddo umido di una notte di novembre era una tortura. Eppure, il giovane gesuita non aveva potuto esimersi da quella scomoda incombenza che i superiori gli avevano affidato. Così, in quella notte del 1814, con l’anima in pena, si era aggirato guardingo per le vie avvolte da una sinistra nebbia fino alla biblioteca e poi, giunto davanti al portone, aveva forzato la porta di palazzo San Pietro. Una volta nel corridoio buio, rischiarato solo dalla tremolante luce della sua candela, sperava di sentirsi meglio, ma non fu affatto così.
La consegna che gli era stata data prevedeva di recarsi nel palazzo, che era stato la sede del collegio gesuitico, sorpassare il cortile, raggiungere il salone e lì nel cuore pulsante della biblioteca, localizzare grazie alle indicazioni dei superiori un certo specifico testo tra più di diecimila volumi.
Quando quasi cinquant’anni prima i gesuiti furono espulsi dal Ducato non era stato possibile spostare il documento ma la Compagnia non si era mai dimentica di quell’oggetto e aveva atteso pazientemente il momento giusto per recuperarlo. Ora che la Compagnia era stata ricostituita da Papa Pio VII, il momento era arrivato e non si poteva più rischiare che tra i frequentatori della biblioteca qualcuno, per caso, si imbattesse nel prezioso scritto. Il giovane religioso sapeva che, nonostante il nucleo iniziale dei volumi appartenuti ai gesuiti fosse stato integrato con molti altri libri, la Compagnia aveva sempre avuto qualche soffiata sul posizionamento dei libri in modo che la localizzazione del testo era stata, per quanto possibile, sorvegliata a distanza.
Arrivato nel salone, il giovane si fermò sull’uscio a osservare gli alti scaffali che mostravano i dorsi di migliaia di volumi. Cominciò a recitare le istruzioni imparate a memoria e a muoversi di conseguenza tra le sedie e le librerie. Poi giunto nella zona di suo interesse, visualizzò ” Vita di S. Raimondo Palmerio confessore” , il volume che gli era stato indicato come punto di repere, partendo dal quale cominciò a contare i dorsi: tanti libri a destra, poi tanti nella mensola sottostante e infine, togliendo un volumetto dall’aria anonima, afferrò un plico sottile nascosto dietro. Lo estrasse con estrema cura e improvvisamente si sentì calmo. Tra le sue mani teneva un Vangelo, non uno dei quattro appartenenti all’ortodossia, ma uno classificabile a tutti gli effetti come apocrifo. Un Vangelo che pochissimi avevano letto e si diceva fosse stato scritto da una donna.
Il giovane sapeva che una volta consegnato il testo ai superiori non avrebbe più avuto accesso a quelle pagine e non avrebbe più potuto sapere cosa quel testo aveva da dire, quindi capì che aveva un’opportunità irripetibile.
Poco prima dell’alba, una figura sgusciò fuori dal portone di palazzo San Pietro. Aveva qualche lacrima sul volto, ma le mani libere. Avrebbe detto che il libro non l’aveva trovato, che le informazioni erano errate e non c’era nulla alle coordinate indicate. E in effetti quella mattina non c’era davvero più niente di interessante in quella posizione. Il testo era stato spostato in un altro punto della biblioteca, nella speranza che un giorno, magari dopo dieci o cento anni, un ignaro studente se ne imbattesse nel cercare qualcos’altro e, incuriosito, lo leggesse. Perché, come il giovane gesuita aveva imparato quella notte, le parole possono cambiare le vita di chi le accoglie.