Sezioni

Ci ritroviamo in biblioteca

di Alessio Del Zotto

Qualche anno fa, feci una gita a Piacenza e incontrai una ragazza che si chiamava Khadija. Le chiesi cosa potevo visitare in città, poiché rimanevano due ore alla partenza del treno e mi sentivo stanco di camminare. Lei mi propose di andare a visitare la Biblioteca Passerini-Landi, una storica istituzione culturale di Piacenza.

Ci avviammo verso la biblioteca parlando del più e del meno. Una volta arrivati davanti alla prestigiosa biblioteca, Khadija mi disse che purtroppo non poteva farmi visitare la biblioteca in quanto doveva tornare a casa ad aiutare sua mamma.

All’interno della Biblioteca Passerini-Landi, rimasi un po’ ad ammirare l’antico edificio. Un libro su uno scaffale attrasse ben presto la mia attenzione, così mi fermai a leggerlo. Era un libro di circa cento pagine, esiguo di fronte ai grandi volumi che lo circondavano.

La copertina del libro era grigia e il titolo l’ho dimenticato. Mentre sfogliavo il libro, lessi alcuni paragrafi che mi fecero riflettere. Così, alzai lo sguardo e mi sembrò di vedere Khadija dall’altra parte dello scaffale. Ma, in breve tempo, la ragazza si allontanò tra i libri e sparì.

Ho dimenticato il titolo del libro perché ho dei problemi di memoria. Mi è stata diagnosticata una malattia. Probabilmente, Khadija era tornata a casa e non era dietro lo scaffale della Biblioteca Passerini-Landi. Era solo un’illusione, anzi, un’allucinazione, come la chiamava il medico.

Sentii il bisogno di riporre il libro grigio al suo posto sullo scaffale, tra gli altri libri maestosi come gli alberi di una foresta tropicale. Ma il libretto che avevo in mano non si lasciava trascinare sullo scaffale. Era come se una forza misteriosa mi trattenesse la mano. Pensai allora che quel libro avesse poteri magici, oppure che stavo di nuovo male.

Così, mi lasciai sopraffare dalla forza che emanava dal libro grigio e lo aprii di nuovo, in una pagina a  caso.  Fu  lì  che  scoprii,  sotto  al  nome  “Khadija”,  la  storia  di  Michele,  mio  nonno.  Dopo l’armistizio del funesto 8 settembre 1943, fu trasferito da Pola alla Risiera di San Sabba a Trieste. Poi, siccome rifiutava di collaborare con l’invasore, partì in treno per Bolzano, dove gli ufficiali nemici decisero di inviarlo a nord.

Nel campo di concentramento di Dachau, fu deciso di mandarlo nel sottocampo di Ingolstadt, dove fu costretto ai lavori forzati, con poco cibo e dell’acqua sporca che chiamavano tè. Al suo ritorno in Italia, fu accolto dalla sorella al cancello di casa. La zia pensava si trattasse di un vagabondo. Non lo aveva riconosciuto, da tanto magro era diventato dopo due anni di prigionia.

Il nonno Michele non volle più bere tè perché gli ricordava la prigionia. Si alzava al mattino presto per occuparsi della cura del campo. Fece il contadino finché, un giorno, un’alluvione spazzò via tutto il raccolto. Il nonno pianse quel giorno. Gli toccò andare a lavorare in fabbrica per sfamare la sua famiglia. Il lavoro da meccanico che aveva imparato in prigionia gli tornò utile.

Così, divise la sua vita tra la famiglia, il suo lavoro da contadino e quello in fabbrica. Poi, un giorno, a sessantaquattro anni, morì. Era poco prima di Natale e dovetti rinunciare alla recita natalizia della scuola perché partimmo per andare al funerale. Avevo otto anni.

D’un tratto, mi resi conto che mancavano venti minuti alla partenza del treno. Riposi il libro sullo scaffale, ringraziando in pensiero Khadija che me l’aveva fatto trovare, e uscii dalla biblioteca.